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Cosa fare e cosa non fare su energia e inflazione – Start Magazine

Conversazione di Startmag con Gianni Bessi, consigliere regionale del Pd in Emilia-Romagna e autore del libro “House of zar. Geopolitica ed energia al tempo di Putin, Erdogan e Trump”, su mobilità elettrica, prezzi dell’energia e interventi del governo

Sulle auto a zero emissioni, l’Unione europea punta tutto sull’elettrico ma esclude biogas e idrogeno. I prezzi alti prezzi dell’energia, intanto, stanno portando a una battaglia tra le grandi banche centrali. Come muoversi? E cosa può fare l’Italia?

Startmag ne ha discusso con Gianni Bessi, consigliere regionale del Pd in Emilia-Romagna, esperto di energia e autore del libro “House of zar. Geopolitica ed energia al tempo di Putin, Erdogan e Trump”.

A che punto siamo sul fronte della crisi energetica?

Per spiegare la situazione attuale prenderei a prestito una definizione utilizzata dai fisici, quella di ‘orizzonte degli eventi’: è un cambiamento dei punti di riferimento che ci costringe ad affrontare i problemi senza poter fare affidamento sull’esperienza. Questo perché ci troviamo in una situazione inedita, dove le evidenze del passato non valgono più. Sarebbe quindi forse più saggio affidarsi a soluzioni multiple, che permettano di non legarsi a un solo modello e quindi a non diventare dipendenti da esso. Il parlamento europeo e i parlamenti nazionali sono ovviamente sempre sovrani e sono in grado di correggere la rotta.

Qualche esempio?

Prendiamo i trasporti. L’Ue ha deciso di vietare entro il 2035 la vendita delle auto a motore combustione interna, ma vista la crisi energetica forse sarebbe stato meglio adottare un modello ‘misto’, che accanto  alle auto elettriche prevedesse veicoli diesel e a benzina di nuova generazione, come anche quelli alimentati a gas, biogas o a idrogeno verde.

Quindi la UE sta sbagliando?

Non necessariamente, però serve un distinguo. Sono d’accordo che si debba puntare su una maggiore elettrificazione della mobilità, ma le tempistiche e le modalità forse vanno riviste. Non ha senso concentrarsi su un’unica soluzione proprio in un momento in cui i fattori geopolitici stanno mettendo in discussione la stessa possibilità di garantire un’adeguata fornitura di energia e materie prime a imprese e cittadini.

Questa crisi legata alle forniture indebolirà il percorso della transizione energetica?

No, se la politica saprà reagire e, come dicevo, correggere la rotta. La transizione energetica del resto passa soprattutto attraverso sviluppo tecnologico, ricerca e innovazione. Per questo occorre un grande sforzo di politica industriale, che ci permetta di superare le contraddizioni della nostra società fra le quali alcune che sono connaturate al percorso del green deal.

Meno rinnovabili quindi?

Le rinnovabili, chiariamolo, non sono affatto in alternativa agli idrocarburi. Una soluzione ragionevole e realistica della fase attuale avrà un impatto molto positivo sulle rinnovabili e sui comportamenti dei consumatori innescando maggior attenzione alle energie alternative agli idrocarburi e l’efficienza energetica. Basta pensare ai nostri comportamenti in questi mesi e alle decisioni dei governi di velocizzare lo sviluppo delle wind farm nel nord Europa.

Intanto il prezzo del petrolio continua a crescere.

Nel mondo ‘occidentale’ c’è molto nervosismo, anche perché nonostante i paesi produttori di Opec plus abbiano deciso l’aumento della produzione, non si intravede all’orizzonte la soluzione che interrompa la spirale rialzista dei prezzi. La mediazione del Regno Saudita ha convinto il tavolo di Vienna, a cui si siede anche la Russia, a incrementare la produzione, ma sembra che la conseguenza di pompare più oro nero non impedisca al suo prezzo di restare alto. E, è più che un’ipotesi, che contribuisca a dare un’ulteriore spinta all’inflazione.

Dove ci può portare tutto questo?

Dopo quella innescata dall’invasione russa dell’Ucraina, c’è una altra guerra che aspetta di essere combattuta e che al posto degli eserciti vedrà schierate le banche centrali. La Fed americana, come hanno evidenziato alcuni analisti, ha fatto la sua prima importante mossa decidendo un rialzo dei tassi.

Altri hanno osservato che alle manovre sui tassi, rivolte a fare tornare positivi i rendimenti reali, si dovrebbe affiancare anche una stretta della politica monetaria per ridurre il livello di indebitamento del sistema.

Queste manovre suggeriscono che lo scenario più probabile sarà una recessione?

Bisogna vedere se le nostre azioni saranno all’altezza di rispondere proprio a questi ‘orizzonti degli eventi’ sempre più ‘sconosciuti’. Non è un mistero che la Banca centrale europea, lo ha annunciato la presidente Christine Lagarde, interverrà sui tassi, pur se in modo più graduale. Ma la domanda è appunto quale livello di inflazione dobbiamo aspettarci. In Italia, con i dati di marzo, è previsto che su base annua raggiunga il 6.5%, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nelle sue considerazioni finali. E la causa principale è senza dubbio la spinta rialzista senza sosta del settore energetico.

Dobbiamo quindi correre ai ripari?

Con i prezzi dell’energia ai livelli attuali avere l’8 o il 6 % forse non cambia molto. Lo scenario, se sarà quello della recessione, che qualche analista malizioso ha insinuato essere l’obiettivo neanche troppo velato di una parte della finanza anglosassone, allora diventano cruciali le risposte che i paesi europei sapranno mettere in atto. Dall’altra parte i custodi della virtù economica americana che operano alla Fed hanno già indicato le terapie consolidate negli anni: tassi alti e repressione monetaria. E a Londra non aspettano altro che allinearsi alla Fed: la ricomposizione dell’Anglosfera non era forse uno dei motivi della Brexit?

E l’Italia?

È un bene, tenuto conto di tutto questo, che nella poltrona di primo ministro sieda Mario Draghi, uno insomma che queste dinamiche le ha maneggiate per anni da protagonista. Un esempio? Oltre agli interventi per calmierare il prezzo della benzina, che i tedeschi ci hanno ‘copiato’, prendiamo il nuovo bonus di 200 euro deciso dal governo: una mossa straordinaria che risponde a preoccupazioni di contrazione dei consumi interni. E non ricordiamo altri governi che siano intervenuti cosi direttamente per sostenere le tasche degli italiani. Sicuramente le strategie di lungo periodo debbono essere calibrate al 2035 e anche al 2050, ma dobbiamo prima gestire l’oggi, che non è cosa semplice.

Basterà tutto ciò visto il ciclo rialzista del prezzo del petrolio? E quando finirà?

La storia ci insegna che anche se le variabili e i motivi sono anche altri e complessi, come i flussi finanziari sui paper barrels scambiati ogni giorno, a ogni fase rialzista petrolifera ne segue una ribassista determinata da un nuova elevata spare capacity, cioè la capacità inutilizzata. Sulla spare capacity, il politico nigeriano Mohamed Barkindo, segretario generale Opec, riferendosi al petrolio ha detto che «la capacità inutilizzata non esiste». Sono parole pesanti.

Cos’è in sintesi la spare capacity?

È il totem di ogni ciclo produttivo e ha conseguenze sui cicli rialzista o ribassista: è la possibilità di avere a disposizione risorse immediatamente disponibili che possono essere attivate in caso di interruzioni delle normali forniture di petrolio. Una sorta di assicurazione, insomma. Penso che se la domanda di petrolio tornerà elevata, per esempio per la ripresa cinese post covid, è scontato che ci saranno ulteriori apprezzamenti.

Qualcuno lo chiama il ‘prezzo della paura’ dei mercati.

Esatto. Ed è una dinamica che ha una conseguenza. Innescherà, anzi ha già innescato, un nuovo ciclo di investimenti, nuove alleanze e situazioni geopolitiche. E apre scenari in cui prevedo che l’Italia possa sedersi al tavolo dei paesi che contano. La visione di Descalzi di puntare molto sui rapporti con l’Africa e il recente via libera degli Usa all’Eni in Venezuela non solo confermano il protagonismo del cane a sei zampe ma, insieme alla linea europeista e atlantista doc del governo Draghi, dimostrano anche le sinergie con gli Stati Uniti sul tema energetico in alcune aree globali particolarmente sensibili.

A Eni è riconosciuta un’affidabilità che è anche storica, risalente al tempo di Enrico Mattei e all’appoggio alle lotte dell’indipendenza di molti degli attuali paesi africani. Saranno passate generazioni ma è un legame forte per loro.

In questo panorama confuso come sarebbe adeguato muoversi?

Intanto bisogna non lasciarci trascinare a fondo dal pessimismo: dopotutto se inflazione sarà, allora colpirà tutti in modo uguale e quindi non dovrebbe incidere sulla competitività, anche se lo farà purtroppo sui consumi dei redditi fissi. Inoltre avrebbe l’effetto di svalutare il debito pubblico, consentendo di trovare risorse per sostenere i più bisognosi. Se durerà al massimo altri sei mesi non ci dovremo ‘preoccupare’, a meno che non torni di moda un’anacronistica politica di austerità.

Per questo si dovrà agire per non creare sacche di disequilibri e disparità che portino a malesseri sociali e eventuali estremismi.

In conclusione, qual è la prossima sfida?

Per l’Ue e le sue democrazie è di non essere più ‘complici’ di spirali speculative, ma di tenere alti i valori della libera ed equa distribuzione della ricchezza, della libertà di stampa, del welfare state, dei diritti civili, ecc. Non con ricette irrigidite e stereotipate ma con nuove politiche sociali adeguate ai tempi. E forse prima di difesa comune o recovery energetico va sciolto il tema di avere un bilancio comune dell’Ue, che è la madre di tutte le politiche di sistema europee. Forse è tempo che la scelta di campo sia non solo ‘atlantica’ ma pienamente ‘keynesiana’ perché oltre a distinguerci dalle democrature russe o cinesi, ci distanzierebbe anche dalle spinte liberiste e speculative. La scelta non può essere fra una democratura e un modello che è sì democratico ma dove a prevalere è la concentrazione dei capitali e l’aumento delle diseguaglianze. Dove agli oligarchi si contrappongono modelli di capitalisti alla Musk o Bezos.

Ottimismo quindi come prima regola.

Sì, ma un ottimismo che non sia passivo ma produttivo e legato ai valori non solo economici ma anche ambientali, culturali e sociali della tradizione europea. Quello che può essere riassunto in una sigla ormai sulla bocca di tanti: ESG, Environmental Social Government.

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