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Quando torneranno le biciclette nei negozi? – Cyclinside


di Guido P. Rubino

8 giu 2021 – Forse neanche durante la crisi del petrolio di inizio anni 70 si era arrivati a una richiesta di biciclette così importante. I negozi stanno continuando a sperimentare un mercato completamente diverso rispetto a quello di due anni fa. Basti pensare che i grandi marchi hanno chiuso il 2020 con un aumento di anche oltre il 40 per cento rispetto all’anno precedente. E il 2021 non accenna a diminuire la marcia della bicicletta che appare davvero inarrestabile.
Il problema? Mancano le biciclette. E se da una parte produttori e negozianti sono più che contenti del momento d’oro, dall’altra si mangiano le mani per tante vendite che evidentemente stanno perdendo.

Dopo il boom del maggio 2020, che trasformò il panico del mercato della bicicletta in entusiasmo per la riscoperta del nuovo mezzo, si è arrivati all’affanno nel rifornire i negozi. Situazione che permane anche in questo 2021 che non ha mai visto tempi morti nei negozi, nemmeno nella stagione fredda.

«Dopo l’euforia del Bonus Mobilità ci saremmo aspettati, alla riapertura a gennaio, un momento di pausa del mercato – dicono i negozi di biciclette – invece si è ripartiti subito con la stessa forza dell’anno precedente».

Ma qual è il problema? È presto detto: mancano le biciclette. Che detto così, genericamente, non ha molto senso: basterebbe produrne di più, ovvio.
Il problema è più specifico: in realtà, non mancano del tutto le biciclette, pur registrando una sensibile differenza fra diversi brand e segmenti di mercato. Mancano soprattutto alcune parti, ma non è certo una consolazione: una bicicletta incompleta è una bicicletta ferma, impossibile da utilizzare e di conseguenza da vendere.

Il nocciolo della questione è qui. Il mercato, così come lo conosciamo, è il frutto di equilibri che si sono definiti in decenni di contrattazioni, conquiste, soluzioni più o meno vantaggiose. È un mercato dove, non è una novità, il grosso della produzione di serie avviene in Estremo Oriente. Senza addentrarci in discorsi complessi di diritti dei lavoratori, salari, eccetera, si può riassumere la situazione che si è definita in una sola parola: convenienza.
Il vantaggio economico della produzione orientale è tale che ai costi di lavorazione si possono tranquillamente aggiungere le spese di trasporto, via mare, fino a noi, mantenendo sempre conveniente l’affare. A patto, ovviamente, di ragionare su numeri elevati.

La pandemia ha rotto il meccanismo: dai remoti paesi dell’est asiatico i materiali hanno iniziato a scarseggiare, le fabbriche chiuse hanno riaperto lentamente e tutt’ora non riescono a stare dietro alla domanda di mercato. In più c’è un problema di trasporti. Se nell’orologio perfetto fino a inizio 2020 inviare materiali in Occidente era un meccanismo super oliato, con la pandemia si è inceppato il sistema. I trasporti sono diminuiti nella quantità e quelli rimasti sono aumentati molto di prezzo (si parla di costi al container quadruplicati) incidendo quindi sul materiale che arriva. Inoltre anche aver garantito il trasporto è diventato un costo in più nella “lotta” a chi imbarcare prima.

Le conseguenze di tutto questo? Un aumento di prezzi che ha coinvolto un po’ tutti i settori. Nel mercato della bicicletta, oltre ad avere ritardi cronici con le consegne, si è arrivati a vedere aumenti di prezzo su ordini già firmati. Non è bello, ma è un prendere o lasciare. E molte biciclette 2021 ancora sono di là da consegnare, i nuovi ordini prevedono attese a tre cifre. Anche per questo molte aziende hanno ritardato le presentazioni dei modelli 2022. La catena dei ritardi si ripercuote su un’onda lunga di cui è difficile immaginare la fine. Si parla del 2023, ma qualcuno, intanto, ha già iniziato a storcere la bocca pure su questa data.

A tenere ferme le biciclette, come detto, è la carenza di componenti. Anche chi è riuscito a tamponare la carenza di telai, procurandoseli da produttori europei (e molti italiani), alla fine è andato a sbattere su questo problema. Ed è un muro insormontabile al momento, perché quasi tutta la componentistica viene realizzata in Oriente. Poche le eccezioni, tra cui la nostra Campagnolo che produce in Italia e in Romania, ma si tratta comunque di una produzione limitata all’alto di gamma, quindi non adatta alle biciclette da città che sono quelle anche più richieste in questo momento. In questo periodo si è letto un po’ di tutto a dire il vero. Anche che Campagnolo avrebbe potuto incrementare la produzione e superare i concorrenti (Shimano e Sram principalmente), ma un cambio di ritmo nella produzione non è cosa semplice nelle logiche aziendali e probabilmente avrebbe richiesto investimenti importanti che forse non sarebbero stati sostenibili nel lungo periodo: cosa succederà, poi, una volta tornati alla normalità? È probabile che si ripristinino quegli equilibri pre pandemia che avevano portato alla convenienza della produzione orientale.

Oppure, come auspica il nostro esperto di mobilità ed economia della bicicletta Alex D’Agosta “riusciranno i nuovi pionieri del back shoring a rendere possibile subito e sostenibile nel tempo il ritorno di una quota utile di componenti entro i confini nazionali? La scommessa è già stata identificata da un recente studio commissionato dal Parlamento Europeo come molto importante per settori come la farmaceutica, il medicale, i semiconduttori e l’energia solare. Alcuni si organizzano al ritorno “in casa” per ragioni politiche, mentre l’ambito bici potrebbe diventare un trendsetter fra i settori sospinti da fattori economici. Fra i driver principali in quest’ambito, sembrano calzare a pennello ad esempio le motivazioni legate alla mancanza di flessibilità, ai problemi di qualità e all’importanza della vicinanza con specifici mercati o con gli utenti finali”.

Il messaggio mandato con forza da ANCMA, va detto, è di quelli interessanti: l’associazione di categoria ha più volte sollecitato il governo (italiano, ovviamente) ad intraprendere azioni per favorire un ritorno alla produzione interna. Certo, non è una scommessa da poco, ma potrebbe riguardare diversi settori, non solo la bicicletta. Facile a dirsi, ma si tratterebbe certamente di una rivoluzione importante dove i costi più alti verrebbero ammortizzati da una maggiore flessibilità e dinamicità della produzione. Oggi chi produce in Oriente su grandi numeri deve fare previsioni di mercato non sempre facili e a lunghissimo termine col rischio di trovarsi in difficoltà (ovviamente, ci sono strumenti correttivi “lungo il percorso” ma la scommessa potrebbe valere la pena, a patto di investirci qualcosa da parte dei governi).

È un po’ quel che sta già facendo una catena di negozi come Decathlon: la produzione delle biciclette della catena francese avviene, per impostazione aziendale, entro una distanza limitata rispetto al negozio che venderà al dettaglio. In questo modo si tagliano tutti i costi di previsione del mercato, di trasporti e in parte anche di stoccaggio dei materiali.

Certo si tratterebbe di un’operazione clamorosa e coraggiosa, ma è il caso di dire anche “se non ora quando?”. Da questo punto di vista una situazione di questo tipo non si ripresenterà più (almeno, ci auguriamo, non per i motivi sanitari che ancora ci attanagliano).
Che si fa quindi? Non ci resta che aspettare che arrivino le biciclette, ma anche che il mercato inizi a ristrutturarsi. Alcuni movimenti si iniziano a percepire. E l’Italia potrebbe essere in prima linea.

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